Lo si era già potuto verificare alla sua precedente personale romana (1970: Galleria Ciak) e lo si può verificare, a maggior ragione oggi: nella misura in cui i processi di mediazione del pensiero (traslazione, movimento analogico e metaforico) hanno guadagnato, nel frattempo, moltissimo spazio nella sua visione delle cose. Se i suoi dipinti attuali sono, più che mai, il frutto di puntualissime, cocciute osservazioni (ed operazioni "ottico-manuali"), altro è il discorso da fare in merito alla loro sostanza. Certo, ieri come oggi, il vostro primo sguardo si sofferma sulla ricognizione, sull'evidenza, sulla credibilità, davanti ad uno qualsiasi dei suoi quadri. Ma l'accertabilità del valore di immagine (del valore di significazione) delle cose, delle figure, degli ambienti esplorati, che era già ieri problematica si è fatta ancora più complessa. L'illusione della realtà "dipinta così com'è" ne risulta non solo minacciata, ma letteralmente travolta - in molte delle sue opere recenti - dal forte potere allusivo del tessuto cromatico (sovente neutro, ma raramente monocromo, sia detto per inciso) e dalla distorsione delle relazioni che governano le analogie od i conflitti fra le cose. Il percorrere ottico e mentale reso obbligatorio dalla perentorietà del dipinto è tale da indurvi - oggi - a "riapprendere", a vedere gli oggetti ed a ricostituire la rete dei nessi o delle antinomie che ne determinano o condizionano le funzioni.
La stessa riconoscibilità delle singole immagini tende, oggi più di ieri (anche se Titonel non è mai stato un pittore della "testualità") a disorientarvi di fronte all'oggetto, per l'aleatorietà del campo visivo in seno al quale esso vi si offre all'osservazione. Cosicché, anche là dove tutto vi può sembrare, a prima vista, vicinissimo allo sguardo, tutto finisce coll'apparirvi lontanissimo da esso, nell'atto stesso in cui vi accingete a considerare la strutturazione logica della realtà che vi è presentata. In altre parole, l'oggetto da percepire vi viene proposto simultaneamente sotto la doppia specie, del percettivo e del simbolico e l'inderogabilità delle forme è cresciuta in misura direttamente proporzionale alla polivalenza dei significati. È per questo che il mondo che avete sotto gli occhi "se ne va" nel momento stesso in cui credete di averlo in mano; per essere sostituito da ciò che vi addita, dispoticamente, l'immaginazione. La realtà è che, dovunque, la superficie del dipinto ci viene proposta, oggi, dall'autore come una sorta di specchio saggiamente "alterato": messo davanti a noi che vi fissiamo lo sguardo perché ci possiamo riconoscere per ciò che siamo e non per ciò che sembriamo, quali uomini tra gli uomini; quali parti integranti e corresponsabili delle storture dell'organizzazione della vita collettiva nella quale siamo coinvolti. Non per niente, questo pittore della realtà urbana ha mostrato sin dall'inizio (e mostra ora, più che mai) di disinteressarsi di tutto ciò che la città comporta come intasamento, frenesia, eccetera. L'idea della proverbiale "solitudine in città" non è che una delle componenti di fondo della sua concezione (lineare, centralizzata, statica) dell'atto di figurare. L'altra componente (la principale, a mio avviso), è quella della volontà di scavalcare l'indistinto, l'episodico, il caduco, per isolare una situazione di fatto dal suo contesto. Quest'idea di estrarla da esso, di porla al centro di uno spazio rarefatto (spesso inafferrabile), di collocarla in mezzo ad un grande cerchio di vuoto e di silenzio è strettamente connessa all'obiettivo di convogliare i propri pensieri e quelli dello spettatore fuori da ogni sorta di vertigine suscitata dagli aspetti esteriori della vita collettiva: verso un luogo che consenta il distacco necessario ad una lucida valutazione delle cose, ad una lucida individuazione dei rapporti di casualità che determinano il disagio psicologico del cittadino dei nostri giorni (che consentono - cioè - che egli sia sopraffatto dalle stesse creazioni che sono uscite dalle sue mani). È a questa volontà di spiegarsi e spiegare "a distanza ravvicinata" il significato dell'esistenza, che fa capo, insomma, il profilo "metafisico" che questa pittura sta assumendo con crescente rilievo (così come fanno capo ad essa i sempre più frequenti riscontri-antiaccademici) sulla storia dell'arte come storia dell'uomo.